Perché Infermieristica Teatrale

Perché Infermieristica Teatrale

L’8 Marzo prossimo è l’ultimo giorno per le iscizioni al nostro Laboratorio di fine Marzo e ieri una donna, una collega, una delle partecipanti alla nostra prima residenza, ci ha fatto un regalo, ci ha inviato questa lettera. E noi, fieri e commossi, la condividiamo. Grazie ancora!!!!

Perché Infermieristica Teatrale

Eccomi qui a spiegarvi perché. Perché Infermieristica Teatrale.

Andrea Filippini, l’ideatore di questo evento, spiega come i libri insegnino quanto il teatro sia un ottimo strumento per conoscere meglio se stessi, per imparare ad elaborare e metabolizzare le emozioni, per migliorare la relazione con gli altri, fondamentale nella professione infermieristica; perché l’ospedale è un luogo pieno di umanità, dove si provano le emozioni più belle e quelle più dolorose.

Imparare a conoscere se stessi e prendersi cura dei pazienti quindi, “perché da comparse diventino protagonisti” (cit.), grazie a questo evento che si trasforma in un importante processo di cui ci si sente parte, dopo averne fatto l’esperienza.

Ha avuto luogo a Caramanico Terme, in un ex Convento delle Clarisse attualmente gestito dall’Associazione culturale Residenze Teatrali, Re.Te. Il gruppo ideatore ed organizzatore, che ci accoglie e che ci accompagnerà in questi quattro giorni, è formato da una decina di persone, di cui tre infermieri, e si occupa di tutto, dal cibo per il corpo a quello per la mente, passando dal riordino degli spazi all’animazione delle serate aperte anche al pubblico. Ed è in queste serate e nei momenti del giorno condivisi, che avviene una sorta di contaminazione tra organizzatori e partecipanti, contaminazione di esperienze, di saperi, di pensieri, ma anche di arte che si fa suono nella serata musicale con il gruppo Banda_Larga, e teatro con il monologo “Shakespirandohamlet” di Piergiuseppe Francione.

Ma andiamo con ordine.

Tutto inizia come un viaggio all’interno di tematiche legate all’assistenza, alla vita, al dolore, attraverso riflessioni filosofiche e laboratori teatrali, tramite esperienze condivise e sperimentate con un linguaggio nuovo che è quello del corpo, dell’espressione, della rappresentazione.

Giulio Zella (infermiere, teatrante, presidente dell’IPASVI di Vercelli), ci introduce al seminario con l’argomento “Il Bene, il Dolore, la Dignità: aspetti di vita infermieristica fra filosofia e deontologia professionale”.

Percorriamo l’evoluzione del pensiero filosofico su queste tematiche, avvicinandoci a Socrate, Platone, passando per Kant, Hegel, e poi ancora fino a Seneca, S. Agostino, S. Tommaso D’Aquino.

Assimiliamo concetti importanti e li discutiamo insieme, trasferendoli poi, grazie all’intervento di Lorenzo Marvelli (infermiere, regista, autore e attore teatrale) su un piano esperienziale che ci permette di indossarli come abiti di scena, di rappresentarli come parole che diventano postura, gesto, performance; di percepirli sulla pelle attraverso il contatto con il proprio e l’altrui corpo.

Sperimentare con il corpo quindi, un corpo che esprime emozioni, sensazioni, resistenze, imbarazzo, confine, limite e che tanto rimanda all’esperienza del paziente che si ritrova improvvisamente spogliato della sua intimità, in un contesto nuovo dove sono gli altri ad occuparsi di lui; sperimentare quel limite che spesso si supera e si infrange nei confronti del malato che è persona, come dice Andrea fatto di “meccanica e anima”, e che rischiamo spesso di non vedere nella sua completezza.

Andrea Filippini (infermiere, attore e autore teatrale, con esperienza lavorativa in un ospedale di guerra in Afghanistan) ci parla di Infermieristica Teatrale e partendo dai cardini della professione, quali motivazione, professionalità, etica e consapevolezza, ci spiega come portare il teatro in corsia.

Un percorso che si differenzia dalla più conosciuta “clown-terapia”, perché non si propone solo di portare l’allegria in ospedale, ma di aprire nuovi canali comunicativi con il paziente attraverso l’uso delle tecniche teatrali.

Chi fa teatro impara a conoscere l’animo umano attraverso i personaggi che interpreta e con i quali interagisce; il mettersi nei panni dell’altro ci è familiare come professionisti della salute, quando cerchiamo di capire il paziente e ci relazioniamo con lui. Questo rapporto empatico è però difficile da realizzare, soprattutto quando si affrontano situazioni di dolore, sofferenza, disperazione, quando le nostre difese si corazzano per proteggerci da quel senso di impotenza, di inadeguatezza, dal coinvolgimento emotivo che la relazione operatore-paziente inevitabilmente evoca.

Per entrare in rapporto con l’altro, sia esso un collega o un paziente, è necessario capire qualcosa di più di noi stessi. L’Infermieristica teatrale diviene il contenitore in cui rappresentare le proprie difficoltà, proiettandole al di fuori per riuscire a vedere nel personaggio e nella scena, il proprio vissuto, le proprie reazioni e le nuove possibili risoluzioni. Laboratori intensi, belli, significativi, per dire con il corpo e con la rappresentazione ciò che è più difficile a parole. Laboratori che ci aiutano a comprendere in modo concreto i concetti di unione, di forza che da questa unione deriva, di limiti che spesso ci attribuiamo in modo inconsapevole e automatico rientrando in schemi e costrizioni.

E il riferimento al comportamento che assumiamo nel nostro lavoro non è certo casuale, corazzati e irrigiditi in copioni ripetuti e tristi che riflettono un ideologia comune e condivisa che tanto male fa al malato ed anche a noi. Negando le emozioni diventiamo candidati alla fuga in tutte le sue forme, dal burnout, alla malattia, all’assenteismo, alla demotivazione, perdendo ogni possibilità di assumere un ruolo attivo ed efficace nella relazione d’aiuto.

Importanti le riflessioni sul dolore, sulla fiducia, fondamentale e necessaria per affidare quel dolore a qualcuno che lo accolga, e sulla morte, su come non la si guardi negli occhi, perché è qualcosa che spaventa, che abbiamo negato e nascosto e da cui tanto difficilmente ci stiamo proteggendo.

E allora rappresentiamola questa morte che non si guarda in faccia, attraverso la messa in scena di Orfeo ed Euridice, tratto dalla Metamorfosi di Ovidio, nella discesa agli Inferi che Orfeo affronta per salvare e riportare alla vita la sua sposa. Egli si ferma e proprio sulla soglia della luce si gira a guardarla, infrangendo un patto e perdendola per sempre, mentre viene trascinata nella morte per la seconda volta.

Impotenti di fronte alla perdita. Perdita della salute, perdita dell’autonomia, perdita della vita.

In “Il Re muore”, Eugène Ionesco ci ricorda come “il presente ci veda in ginocchio, faticosamente ancorati ad un trono che ci sfugge, ad una sedia che si fa a rotelle, ad un corpo che non risponde ai nostri comandi, ad una natura che non è più possibile addomesticare” (cit.).

Infermieristica teatrale vuol dire tutto questo.

Vuol dire tornare a casa e andare a cercarli tutti quei nomi che abbiamo sentito, quei personaggi storici, teatrali, reali o scenici che abbiamo incontrato. Rileggo Zygmunt Bauman e la sua Società liquida, Il Teatro Povero di Jerzy Grotowski ed Eugenio Barba, Konstantin S. Stanislavskij con la Psicotecnica che parla di approfondimento psicologico e ricerca di affinità tra il mondo interiore del personaggio e quello dell’attore. Quanto sono vicini alla nostra realtà.

Le ginocchia appena piegate contengono il Sats (termine coniato da E. Barba), l’impulso di un azione che ancora si ignora e che può andare in qualsiasi direzione, saltare, accovacciarsi, fare un passo indietro e di lato, oppure sollevare un peso. Leggo come dal privilegio di questa intuizione nasca il primo principio dell’antropologia teatrale: l’alterazione dell’equilibrio.

Il cambiamento implica questo passaggio, l’attraversamento di una zona di confine che è disequilibrio, perdita, un confine che ritroviamo tra la salute e la malattia, la sofferenza e la guarigione, la vita e la morte.

E ritroviamo quel Sats anche nella nostra situazione attuale, pronti a perdere un apparente e forse illusorio equilibrio per partorire un gesto, un azione di cambiamento. Ma in quale direzione?

Nella direzione dell’umanità, dell’uomo professionista e dell’uomo paziente, del prendersi cura e del comprendere, che è diverso dal curare e dal capire.

E quali sono i mezzi che rendono possibile questo? La consapevolezza, innanzitutto, dell’importanza e della necessità di questo cambiamento, e l’acquisizione di competenze relazionali che vengono lasciate alla personale esperienza ed omesse, o solo accennate, nei percorsi formativi dei professionisti che si occupano di salute. Competenze che permettono di riconoscere quel q.b. che fa la differenza e che, se dosato correttamente, fa di una ricetta un ottima pietanza; un quanto basta che, come ci spiega Andrea Filippini, non si insegna, non si studia sui libri, ma si acquisisce con l’esperienza e con la vita.

Ma nella relazione con il paziente, nell’assistenza alla persona, non possiamo permetterci di andare per tentativi.

Ecco perché c’è bisogno di un contenitore in cui sperimentare, in cui rappresentare e vedere, ma non un vedere del solo sguardo, un vedere che è visione completa delle cose e dell’uomo, un vedere che diventa sentire.

Infermieristica teatrale è un evento formativo che innesca questo processo di consapevolezza.

Dice Jerzy Grotowski «Non è l’avventura teatrale che è importante nella vita, ma la vita come avventura, questo è importante. All’inizio per me il teatro è stato unicamente il pretesto, lo pseudonimo della vita come avventura, un raggio in più. Il teatro non è stato niente di più per me, mai; l’attore era lo pseudonimo per dire essere umano, niente più

Attore come pseudonimo di essere umano. Si mette in scena quindi per scoprire, per sperimentare la verità su noi stessi; per guardare aldilà delle maschere dietro le quali ci nascondiamo ogni giorno. Infermieristica teatrale ci permette di trascendere la nostra visione stereotipata, i nostri livelli di giudizio, ci aiuta a verificare la realtà al di là di tutte le finzioni, comprendendo ed elaborando il significato di entrambe.

Nell’impossibilità di togliere alcune maschere a volte necessarie, ci si può avvalere della consapevolezza di indossarle, della capacità di farlo in modo appropriato e funzionale alla relazione d’aiuto, prive del significato di inganno e di falsità, ma all’interno di una relazione autentica, in cui conosco e so quello che sto facendo perché ho imparato a farlo nel modo appropriato alla situazione e alla persona con cui mi sto relazionando.

La scuola ci insegna il gesto, ci insegna la tecnica, la vita e il teatro ci possono insegnare ad eseguire quel gesto con delicatezza o intensità, calibrando tutti gli elementi che lo compongono, sperimentandone gli effetti e le conseguenze, facendo esperienza della sensazioni e delle emozioni che lo accompagnano.

Siamo in fondo sul palcoscenico della vita ogni giorno in corsia, a recitare molteplici parti, esercitandoci a capire quando è utile una maschera e quando non lo è, qual è quella che il paziente indossa e quale quella con cui vuole interagire. Respirando lo stesso respiro del dolore a cui assistiamo possiamo imparare a non rimanere senza fiato.

Infermieristica Teatrale. Ecco il perché.

M.M.”

1 commento su “Perché Infermieristica Teatrale”

  1. Pingback: Laboratorio Residenziale Modulo Base: Essere o Non Essere (27 crediti ECM per tutte le professioni sanitarie), 16-19 marzo 2023, Melara (RO) – Infermieristica Teatrale

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